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La barca di Diego
Sta in cima alla collina, o quasi, nel vano di una piazzetta ombreggiata da alcuni pini distorti dal vento, che lassù si scatena; a picco sul mare, in un rettangolo di terra, di roccia friabile, sorretto da muri poderosi come fiancate di una nave. Sta lì, posata come una scialuppa di salvataggio, pronta ad essere calata da un ipotetico paranco nelle onde gonfie del mare. Ma quale mare? Quello laggiù in fondo alla collina, laddove si stende il paese più giovane, che fu costruito più di cento anni fa sul bordo di una spiaggia sassosa e dura; una spiaggia orlata di schiuma bianca, primo contatto di quell'immensa distesa colore dell'indaco che scivola fino al limite ultimo dell'orizzonte.

La barca non lo vede nemmeno, questo mare di favola, sempre cangiante, secondo i venti e l'umore, azzurro, verdastro, turchese; perché rimane un po' indietro, infossata dietro a un muretto che fa da sponda e da cornice alla piazza, per fermare la corsa dei bambini e come parapetto per i grandi, che, arrivati quassù, si appoggiano in silenzio a guardare il grande spazio fino all'orizzonte. La barca, il mare, lo sogna, lo immagina; già lo conosce. E forse è ancora più bello, indovinarlo dietro al muretto, come fosse, per la barca, la siepe dell'infinito. È una "lancetta" perfetta, classica, nelle dimensioni, nel materiale, nelle rifiniture. La tinteggiatura, indefinita e sbiadita, consunta, è quasi illeggibile; ne sono rimasti dei frammenti, quasi il ricordo della vernice che aveva. Ma anche questo dettaglio finisce per essere affascinante, quasi un vezzo, come per tutte le cose che sanno di antico. Anzi la barca, a pensarci bene, nel mare non c'è mai stata, e non ci tornerà. Ma come è nata, questa barca fantasma?

L'ha fatta molti anni fa un paesano di qua, Diego, che abita in una casetta lungo la strada che affianca la stessa piazzetta nella quale si trova la barca, proprio nel tratto che fa da ingresso al paese. Diego è un uomo di mare, sarebbe logico pensare, un pensionato, data l'età, verso i settanta. E invece no, Diego non è un marinaio, non lo è mai stato; e non è veramente nemmeno un pescatore. Da ragazzo, certo, come tutti sarà sceso giù alla marina e avrà buttato una lenza dal molo che avanza tra le onde, per prendere qualche pescetto, ma niente di più. Ha fatto una barca proprio perché non è un pescatore, e non ha fatto neanche il marinaio.

Il discorso sembra assurdo, un po' folle; ma non lo è. Forse i poeti cantavano la luna pensando che un giorno ci sarebbero sbarcati? Nemmeno per sogno. La cantavano perché era lontana, irraggiungibile; e il disco d'argento era soltanto uno splendido disco d'argento. Forse un uomo canta una donna e le sue meraviglie solo quando ha fatto l'amore con lei? Non sempre.

Ma torniamo alla barca di Diego.

Quando non stava sulla porta di casa, a pochi metri dalla sua barca, seguiva da curioso, da saggio e acuto osservatore qual era, l'andamento della strada che passa davanti a lui, con le comparse che appaiono e scompaiono secondo il flusso, come fossero figuranti di una scena teatrale, o nel set di qualche film che si stesse girando. Era il set della vita che gli passava davanti, e le comparse potevano diventare comprimari o interpreti, secondo il caso, secondo che si stabilisse un dialogo di affinità, un'indagine più approfondita sul personaggio che veniva a passare di lì, che entrava o usciva dalla sua vita. Ed era un set molto bene condotto, potremmo dire, con la sua regia, una regia sotterranea, nascosta, molto discreta, che non voleva in nessun modo comparire o forzare la mano.

Il dialogo poteva essere iniziato sul tempo, sulla strada faticosa in salita, sui mestieri che si fanno e sul caro vita; poteva anche essere un saluto soltanto per il paesano o la persona conosciuta; o anche solo uno sguardo incoraggiante per uno sconosciuto di passaggio. Dopo, il discorso si approfondiva, si arrivava insensibilmente all'indagine, alle domande fatte con discrezione, fino alla battuta salace e piccante, che poteva risolversi in una risata. Diego ha sempre avuto un acuto spirito umoristico, bonario, come molti soggetti del paese, a commento dei problemi spinosi che il paese presenta, di critica sulle persone che tengono il comando, fossero quelli del governo o fossero le piccole autorità del paese, come il sindaco o uno dei vari assessori. In questi dialoghi rifulgeva la sua saggezza, il suo giudizio oculato, la sua staffilata talvolta decisa e crudele, se il caso lo richiedeva.

Il gruppetto di fronte ai gradini sui quali sedeva Diego si faceva talvolta più folto, quasi un freno al flusso dei personaggi di passaggio; ma sempre il dialogo si chiudeva con una forte stretta di mano, con una battuta sulla spalla o una risata, con un saluto benevolo o un augurio. Diego voleva bene alla persona, voleva bene alla vita, e le persone gli volevano bene.

Qualcuno lo aveva proposto per sindaco del paese alto, ma lui ci scherzava sopra, non accettava l'idea. Sapeva che un sindaco era, o avrebbe dovuto essere, una persona valida, seria, e non si sentiva all'altezza. Come un vero sindaco ideale, si comportava, dando consigli, progettando migliorie e correzioni all'incerta "baracca" del paese.

Aveva troppo rispetto di tutti per sovrapporsi con la sua voce o il suo giudizio. Il suo senso della misura gli impediva di strafare, di mettersi in mostra, di imporsi in qualche modo; un carattere forse al contrario di quello che è dato trovare in un sindaco vero.

Dal gradino su cui sedeva davanti a casa era facile passare all'interno, sia del suo negozio di alimentari, nel quale si raccoglieva il modesto guadagno che gli serviva per vivere, sia, più all'interno ancora, nella stanza laboratorio, dietro il negozio, dove Diego lavorava al lavoro più bello che potesse desiderare, il suo hobby: le barche; rifare i modelli di vecchie lancette o di vecchi velieri, dei bastimenti più grandi, più o meno celebri del passato. Era il suo regno. Non si trattava, come accade spesso, di ricostruzione, di assemblaggio con parti prefabbricate, di pezzi "di serie", venduti e inviati da qualche società specializzata. Diego ha sempre rifiutato tutto questo. Faceva tutto da sé: da scavare lo scafo di una barca dentro a un pezzo di legno, a segare in vari frammenti le parti più piccole e dettagliate; da limare una piccola scialuppa, che andava su di un battello più grande, a intrecciare i cordami del complesso sartiame di un veliero, di un tre alberi dell'Ottocento. Poi verniciava l'intera barca già finita e-lucidava le minute balaustre di un brigantino fine Settecento. Aveva intorno tutta una serie di documenti attaccati al muro o agli armadi del suo "atelier": stampe antiche, tavole di misure comparate, modellini vecchi, anche rari, che aveva comprato in vari mercati dell'antiquariato, che frequentava con occhio indagatore, spendendo gran parte dei suoi guadagni. Quando si era ammessi nell'antro segreto del suo lavoro creativo, bisognava chiedere, chiedere chiarimenti, spiegazioni, da inesperti come siamo tutti in materia. Allora veniva fuori il docente, lo studioso, il maestro; ma senza superbia, senza prosopopea, da intenditore vero, che non ha bisogno di darsi le arie e che è solo contento di chiarire i dubbi; e ce la mette tutta per farti capire e andare in fondo al problema. Era raggiante. Girava per la stanza prendendo in mano e soppesando i lavori, i suoi modelli, come un artista maneggia modelli di statue, o un orafo tratta oggetti preziosi. Se lo chiamava qualcuno dalla bottega, mentre era intento a sfoderare il suo tesoro, il suo piccolo grande mondo, si oscurava in volto, interrompeva la spiegazione e il "sogno", come un bambino a cui si interrompe a un tratto la favola; entrava malvolentieri nella realtà giornaliera del negozio, anche se si prestava a servire con tutte le buone maniere che possedeva, ma come fosse trascinato da uno spettacolo fantastico verso una molto modesta realtà. Non ricordo se Diego aveva dei nipoti, ma certo le sue barche, i suoi velieri, sono sempre stati la sua compagnia, l'affetto più caro che si potesse augurare ad un uomo maturo.

Anche in bottega, del resto, che non rappresentava il vero luogo più caro, segreto, ma dove si svolgeva il suo abituale lavoro, quello che gli serviva a tirare avanti, anche in bottega Diego portava quel qualcosa di sacro, di sacerdotale, il suo modo di fare, il suo rapporto con gli altri, il suo impegno.

Forse tutto dipendeva dalla sua profonda onestà, dalla sua bonomia, dalla sua congenita impossibilità a pensare in chiave commerciale. Lontana da lui l'idea di immaginarsi un qualsiasi raggiro; vendeva, ma non era, per nostra fortuna, un vero commerciante.

Somministrava i cosiddetti generi di consumo, il pane, la pasta, la farina, il sale, il baccalà, le acciughe sotto sale nel barilotto, con la stessa severa attitudine, quasi con gli stessi gesti di un sacerdote che compia un rito. La bottega stessa, nella sua semplicità essenziale, aveva qualcosa della sacrestia di una parrocchia di campagna. Tutto era di legno chiaro, naturale, sonoro; il bancone con sopra la vecchia stadera e i pesi relativi, di legno come i mobili semplici lungo le pareti, divisi a scacchiera come una dama, per contenere i vari tipi di pasta, i legumi o i vasetti, i barattoli con la conserva di pomodoro e i sottaceti fatti in casa. La cassetta del sale, abbastanza grande, dominava con il mestolone di legno per travasarlo. Gli stoccafissi pendevano da un travetto fissato al muro e oscillavano ogni volta che si apriva la porta, come oscillano in chiesa le frange dei panneggi o le tovaglie ricamate sopra gli altari. Anche l'odore del baccalà assumeva in questo luogo qualcosa di pulito, di essenziale, l'odore di ciò che è indispensabile alla vita, che insieme al pane e alla pasta rappresenta la mensa, frugale e costante, di un lavoratore, di un uomo qualunque, fosse marinaio o contadino.

Il pane, odoroso di forno, stava in un altro reparto di legno chiaro, con le sue forme gonfie e arrotondate, con il suo odore di legno cotto, come fosse la giusta appendice di questa semplice, essenziale scenografìa. Era veramente il pane cristiano del Padrenostro: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano".

Il suo modello di venditore onesto e, se vogliamo, anche scomodo ali'Decorrenza, può essere ricordato da un episodio, esemplare per spiegare la sua dirittura, il suo comportamento; quello del prosciutto, una storia che è capitata alla mia presenza.

Ero andato alla bottega, come di solito, per comprare quanto c'era di meglio per una merenda: pane fresco croccante, di quello un po' scuretto, e una cartata di prosciutto crudo, di quello naturale di queste parti, e perdipiù casalingo, fatto da Diego con il suo maiale. Dunque un prosciutto prezioso. Messo da parte il pane, Diego aveva appena staccato dal gancio a cui era assicurato per maturare lo stupendo prosciutto che era rimasto, l'ultimo. L'aveva sistemato dentro alla morsa speciale per tenerlo diritto su di un fianco sopra il bancone, e stava per iniziare a levare la prima crosta salata, per scattivarlo. Aveva già preso il coltello lungo, affilato, per tagliare a mano le fette marezzate di rosso e di rosa. "Quante ne facciamo?" "Due etti, Diego, o poco più". In questo preciso momento è avvenuto l'inghippo, l'incidente, del tutto casuale. Sono entrati in bottega due energumeni con fare autoritario e spavaldo, fisico abbondante e di tipo nordista, pagano, visibilmente strafottenti fino dal modo di entrare, di sbattere la porta. Non hanno salutato, ma hanno guardato con cupido sguardo solo il prosciutto che stava in trono sul piano del bancone; si sono innestati di brutto, invadenti, con la proposta perentoria, quasi che fosse un ordine: "Non stia a cominciarlo, quel prosciutto lo prendiamo noi, tutto intero".

Diego, col coltello in mano, li guardò per una lunga pausa di riflessione; e disse lentamente, sillabando: "Di prosciutto mi è rimasto soltanto questo. È l'ultimo, e da questo prosciutto devo tagliare più di due etti per questo amico che è già in bottega prima di voi. Se accettate di prendere il prosciutto con due etti di meno, va bene; se no, non se ne parla".

1 due si sono guardati, urtati, stupiti, quasi schifati, e hanno voltato le spalle sbattendo la porta, senza una parola. Diego, senza una parola di più, lentamente, faceva le belle fette che avevo richiesto. Aveva perso un affare, ma questo non era importante. Non parlò, non ce n'era bisogno, ma la sua calma, la sua sicurezza era come dicesse: "A me nessuno detta degli ordini, per nessuna ragione". Io commentai: "Grazie, Diego, credevo che fosse sfumata la mia merenda". Diego rispose: "Vedi, Mario, quei signori non sapevano che per me i clienti son tutti uguali, anche se comprano un pacchetto di fiammiferi da cucina".

La sorella di Diego, a duecento metri dalla bottega, teneva il ristorante, dove prima c'era soltanto un'osteria. E con il ristorante è nato anche l'albergo, un piccolo albergo che gode una vista da favola, dominando tutta la costa, dal faro di Pedaso a San Benedetto. La sorella di Diego è donna di paese, ma sa fare gli affari, molto più del fratello.

Diego ha solo la sua casetta che da sulla strada nel punto più adatto, dove il paese vecchio comincia, e chi ha fatto la salita, prende respiro e si ferma. Per questo Diego è seduto davanti a casa a studiare la gente che passa; lui è come il saggio dell'antica favola cinese, che sta immobile a guardare il mondo passare.

Dietro la casa c'è un orto, quasi segreto, che non si vede dalla strada, con una grande agave fiorita e un fico vecchio, contorto, sbilenco, che a settembre fa dei fichi stupendi, di vera collina, perfetti per essere mangiati col famoso prosciutto, quel prosciutto che forse è meglio non vendere, per mangiarselo in casa con qualche amico.

Davanti alla casa di Diego, con l'ingresso che da sulla stessa piazzetta a due passi dalla barca famosa, c'era un'altra casa, anzi l'avanzo di una casa diruta, perché sono rimasti solo quattro muri di mattoni corrosi. Sopra la porta d'ingresso di questa casa, entro una nicchia quadrata, c'era, fino a qualche anno fa, una piccola statua, un San Michele Arcangelo di marmo, di quelli che si trovano spesso in Puglia, qualche chilometro più a sud. C'era... perché un bel giorno o una notte qualcuno l'ha fatto sparire, il San Michele, e Diego, che di solito lo mostrava ai passanti, ai turisti, >come una "perla", una cosa preziosa, antica, che parlava del paese, che lo proteggeva e lo nobilitava, non fa che guardare, da allora, la nicchia vuota. Non sa capacitarsi come possa mai esistere qualcuno così poco civile, così poco uomo da rubare a un paese un pezzo di storia, che non ha prezzo, e solo il diavolo può farla sparire.

Ora la barca, come arenata nel verde della piazzetta, non c'è più, consumata dall'uso, dai giochi dei bambini che ci sono montati per almeno due generazioni, dai fidanzati che si sedevano sulla traversa per dirsi parole dolci; corrosa dalla pioggia, dalle stagioni, dal tempo. Poco a poco, rimase prima un rudere, quasi un relitto abbandonato dal mare, o come un reperto archeologico dissepolto. Poi è scomparso anche il relitto, che aveva fatto sognare per lungo tempo.

Non c'è più la barca e non c'è più Diego, a guardarla, quasi a proteggerla, dalla sua finestra che dava sulla piazzetta e dominava dall'alto il mare lontano e il bordo della costa fino alla punta del faro.

Eppure... ora che hanno messo delle panchine (di ferro, per resistere a lungo all'usura del tempo), le hanno piazzate rivolte al mare e al muretto che fa da sponda alla piazza, è successa una cosa che sembra assurda, e che invece è risultata perfetta, naturale, logica. Qualcuno ha spostato faticosamente le panchine, e le ha disposte con lo schienale verso il panorama, e lo scivolo per sedersi rivolto al centro della piazzetta, nonché alla strada che passa vicina; come per guardare qualcosa, un monumento che non c'è, quella barca che non c'è più ed è come se ancora ci fosse.>

In effetti la barca continua ad esistere, testardamente, nella memoria e nella fantasia, sogno più forte e duraturo di qualunque realtà.

Se fossi il sindaco di questo paese arroccato sulla collina, metterei un'altra barca al posto di quella scomparsa, quella di Diego; magari una barca che fa acqua, che non regge il mare, e quando si consumerà, un'altra barca potrà venire al suo posto. Anche gli uomini si consumano, ma ne vengono sempre degli altri, per sostituirli, perché il discorso continui.

La farei portare, la barca, dalla marina fino alla piazzetta, accompagnata da una processione di bambini, di paesani, anche di turisti, ma soprattutto di pescatori, se ancora esistono. Dovrebbe salire, la processione, cantando e tirando lo scafo che scivola faticosamente sui rulli bene ingrassati, come per un varo a rovescio. La processione con il coro dei portatori dovrebbe essere allegra e severa al tempo stesso, quasi che si trattasse di un rito antico, come accadeva nell'Egitto dei Faraoni con i blocchi che salivano lungo lo scivolo ben preparato per costruire l'eccelsa piramide.

Nella piazzetta deve tornare la barca, come un monumento, il più bel monumento, adatto a un paese di mare, che porta il suo simbolo come un miraggio sulla collina. Meglio dei pesci falsi, degli angioli di cemento, delle sirene finte, dei pescatori che suonano la buccina per farsi sentire nella nebbia; o fusi nel bronzo imperituro. Niente di tutto questo, che suona falso.

Meglio una barca vera, issata contro il cielo; un oggetto di fatica, di sudore, di lavoro, uno strumento della vita di tutti i giorni, e insieme, uno strumento di scoperta, di avventura, che diviene sogno. Un pezzo di mare come assunto in cielo, messo a guardare il mare dall'alto, luminoso e dilatato, veramente immenso, senza confine; una barca sul trampolino del colle che si tuffa nel cielo.

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