Angelo Doneda
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... (Le parole) ... [Cupra]
Torniamo ancora all’arrivo a Cupra. Nessuno, ovviamente, era ad attenderci:
allora non esistevano i telefonini, piaga della modernità, talvolta
anche utili. Pertanto, mio padre e i miei fratelli che ci avevano
preceduti, erano totalmente ignari del nostro arrivo. Noi, del resto,
non sapevamo come riunirci a loro.
Il problema fu presto risolto. Allora tutti sapevano tutto di tutti. Sapevano
che erano arrivati dei milanesi amici di Domenico Grisostomi, il
fratello di Verina, quella che, proprio dietro la parrocchiale allo sterro,
aveva un piccolo negozietto; uno di quei negozi che da noi settentrionali
venivano chiamati posteria, dove si trovava un po’ di tutto.
Domenico, Mecucciu per i compaesani, era un cassiere volante della
Cassa di Risparmio delle Provincie [sic] Lombarde, che spesso lavorava
nella succursale diretta da mio padre.
Per chi legge queste righe, faccio presente che il cassiere era, a quei
tempi, un personaggio di particolare fiducia addetto al maneggio del
contante, la cui presenza era indispensabile per l’apertura della cassaforte
della banca prima dell’ora di accesso del pubblico. Egli infatti era
il detentore di una delle tre chiavi che usate una dopo l’altra, permettevano
di sbloccarne la serratura. Se per una ragione o per l’altra veniva
a mancare il cassiere titolare, un cassiere volante chiamato dalla
Sede centrale doveva sostituirlo al più presto.
È per questa colleganza di lavoro che Mecucciu ebbe modo di fare conoscere
Cupra a mio padre e di invitarlo a passarci le ferie: le sue prime
ferie dopo gli eventi bellici, delle quali, diceva Mecucciu, non si sarebbe
pentito. Oggi posso confermare che le referenze da lui date erano
sincere, assolutamente veritiere.
Dunque, si sapeva che erano arrivati dei milanesi e che avevano trovato
alloggio allo sterro presso Àrmida a un passo dal negozietto di Verina,
vicino al fabbro.
Non fu difficile, perciò, ricomporre con il sollievo di tutti il nucleo familiare.
Devo qui osservare che ho avuto subito la netta sensazione di essere
arrivato in un’altra Italia, un’Italia ancora risorgimentale e pacifica, ben
diversa da quella che avevamo lasciato alle nostre spalle il giorno prima.
Un paese in un’Italia ancora risorgimentale, ho osservato. Una delle
cose che più mi colpirono all’arrivo, fu la lapide che ricorda la resa di
truppe papaline, lì definite mercenarie al servizio della Teocrazia, ma
che di fatto erano costituite in buona parte da rampolli delle migliori
famiglie d’Irlanda o di altri Paesi europei, che volontariamente usavano
in quei tempi mettersi al servizio del Papa. Come si sa, la “leva” obbligatoria
fu istituita in Italia solo con i Savoia.
La lapide, in un certo senso, faceva un poco a pugni con l’atmosfera
immediatamente da me percepita come serenamente pacifica. Una
pace che segnalava un mondo distante mille miglia da quello della mia
Milano che, già martoriata dalla guerra e dall’occupazione tedesca, in
quel momento aveva ancora voglia di roteare le clave. Mi ero infatti
sorprendentemente ritrovato in un mondo patriarcale, semplice, umano,
pacifico, che ci faceva il dono di una rispettosa amicizia e di una
grande ospitalità. Allora, era usato molto più di oggi, il Tu (Tu, Signò) al
posto dell’obbligatorio Lei di noi settentrionali, che non sopportavamo
il Voi mussoliniano. Ma era il Tu latino, quello che si usava anche con
l’imperatore, non il Tu sfacciato e livellatore d’oggigiorno. Un Tu che
mi emozionava facendomi vivere la latinitas con la quale mi ero misurato
per parecchi anni fin dalla prima ginnasio (prima ginnasio e non
prima media, perché, per la mia antichità, ho frequentato il ginnasiodalla
prima alla quinta, prima di passare al liceo). E il so’ ito e sorvenuto?
Delizie per le mie orecchie.
Sapemmo poi che grazie a Dio (e a Bartali), il clima si era via via disteso
un poco anche a Milano. Lo sapemmo dai giornali quando ripresero
ad arrivare (apparecchi radio non ce n’erano a disposizione). La tappa
dei cinque colli al tour de France, vinta strepitosamente da quell’eroe
dello sport, aveva distratto gli animi. A Milano, la folla adunata in piazza
del Duomo per protestare minacciosamente contro l’attentato a
Togliatti, all’annuncio della vittoria dato dagli altoparlanti posti in cima
ai lampioni della piazza, si mise a tripudiare trasformando tutto in una
festa collettiva.
Anche se apparentemente non è pertinente a questa relazione, mi
permetto una considerazione. Tutte le rivoluzioni, come si sa, sono
opera di pochi ai quali si accodano le moltitudini. Se però queste sono
distratte e non si affiancano ai primi, la rivoluzione fallisce.
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