Angelo Doneda
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... (Le parole) ... [viaggio]
È in questa atmosfera densa di pericoli e di preoccupazione che prevalse
il desiderio di affrontare gli eventi a famiglia riunita allontanandoci,
tra l’altro, da un quartiere che per essere abitato quasi esclusivamente
da operai delle grandi fabbriche (allora ancora ben presenti
nel tessuto urbano milanese), era fortemente ostile non solo ai pochi
negozianti del posto, ma anche alle famiglie della piccola borghesia
impiegatizia ivi accasate, tutti considerati nemici del popolo.
Era proprio questa, anche se oggi sembra inverosimilmente esagerato
quanto ho scritto, la realtà milanese di quei tempi. È quindi possibile
comprendere con quale animo si partiva da Milano.
A Cupra si sarebbe dovuti arrivare in treno dopo un viaggio notturno.
Ad Ancona, giacché in tale città cessava l’elettrificazione della linea
ferroviaria che passava anche dal doppio al singolo binario, ci sarebbe
stato il cambio del mezzo di trazione del convoglio: al posto del locomotore,
una locomotiva a vapore. Pur con tutti gli inconvenienti derivanti
dall’incrociarsi con i treni diretti al nord, in qualche ora si sarebbe
comunque dovuti arrivare a Cupra, secondo l’orario ufficiale (peraltro
mai rispettato), verso le sei del mattino, ora in cui doveva cominciare
lo sciopero.
Secondo il gioco degli orari, dunque, il viaggio si sarebbe dovuto concludere
senza particolari tribolazioni. Sta di fatto però, che ad Ancona,
verso le quattro del mattino, il cambio del mezzo di locomozione non
fu effettuato. Il viaggio in ferrovia doveva essere considerato concluso.
Era, questo, uno dei segni che l’Italia si stava dividendo in due. La parte
settentrionale, pronta a menar le mani; quella centromeridionale,
più tranquilla.
Per buona sorte dei viaggiatori, esistevano ancora i mezzi di trasporto
di fortuna che nel primo dopoguerra avevano consentito anche a enti
come l’ONARMO di sopperire alle deficienze dei trasporti pubblici: autocarri
nei cui cassoni venivano allineate panche di legno (senza spalliera,
naturalmente) per consentire il trasporto delle persone in condizioni
non eccessivamente disumane.
Fu così che il viaggio, per le persone impazienti fra le quali il sottoscritto
e sua madre, poté continuare in uno scenario stupendo di un’ Italia
ben diversa da quella che conoscevo. L’autocarro non aveva telone di
copertura. Era quindi possibile godersi il paesaggio con una vista a 360
gradi.
La strada, allora di solo due corsie, una di andata e una di ritorno, era
fiancheggiata su entrambi i lati da file di platani rigogliosi le cui fronde
combaciavano dando origine a verdi ombrosi archi.
Fra una pianta e l’altra, fiancheggiavano la strada grossi allegri cespugli
di oleandri fioriti.
Lo spettacolo era degno di nota e nuovo ai miei occhi. La guerra e la
difficile successiva ricostruzione del paese avevano impedito alla mia
famiglia di andare, sulla costa adriatica, oltre Rimini.
La ripresa del turismo era ancora ben lontana sia per le condizioni economiche
della gente, sia per lo stato dei trasporti e delle strutture
ricettive.
Ritornando al viaggio, ricordo che da un lato potevo ammirare il mare
sulle cui spiagge sassose e deserte erano stese qua e là, a imbiancarsi,
le lenzuola tessute ai telai casalinghi. Dall’altra, lo sguardo spaziava sul
susseguirsi dei pendii delle colline marchigiane sui cui crinali comparivano,
ben accorpati, gli abitati dell’entroterra. Nelle vallate, solo case
coloniche in un paesaggio di vigne, campi spogli del grano appena mietuto
e secolari uliveti.
Me li ricordo bene quegli uliveti. Ora, purtroppo, sono stati sostituiti
da altre colture. Non ho la competenza per giudicare la politica agricola
sottostante alla loro distruzione. Posso solo ricordare la pena nel
veder sradicare certi ulivi ultracentenari …
Almeno fosse stata data ai quei tronchi e a quelle meravigliose radici
una degna destinazione! Invece, ho avuto modo di vederne qualche
catasta svenduta a una falegnameria di Grottazzolina che ne ricavava
materiale per i parquets. Uno scempio.
I paesi attraversati presentavano ampie soluzioni di continuità; le loro
case apparivano tutte di costruzione prebellica, in parte malandate; sui
loro muri apparivano i segni lasciati dal passaggio delle truppe alleate:
scritte che segnalavano soprattutto le disinfestazioni operate con il
DDT e le zone non accessibili ai militari in libera uscita (gli Off limits eternati
da vari film neorealistici) ; talvolta ricordavano anche che di lì
era passata combattendo l’eroica Armata polacca. A questo proposito,
non posso non ricordare con emozione di aver avuto l’occasione di conoscere
a Parigi uno di quei militari polacchi. Si chiamava Giorgio Renski
ed era diventato un alto funzionario del Mouvement Européen di
Churchill; aveva imparato un po’ d’italiano in quel di Grottammare,
dove era rimasto di stanza per un paio di mesi.
Ricordo l’effetto che mi fece Torre di Palme appollaiata in cima alla
collina dal pendio scosceso che segnalava un mutamento del paesaggio.
Le colline sembravano ora volere tuffarsi nel mare come sporgendosi
da un parapetto.
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